Editoria

4 Settembre 2014

Il selfie: narcisismo o richiesta di attenzione?

Un'esasperazione del narcisismo o una nuova forma di socialità costruita sull'autorappresentazione? Comunque lo si consideri, il selfie è il fenomeno dell'anno.

Esasperazione del narcisismo nell’epoca dei social media o una nuova forma di socialità costruita sull’autorappresentazione? Comunque lo si consideri, il selfie è il fenomeno dell’anno che coinvolge tutti, è entrato di diritto nell’Oxford Dictionary e ha cambiato perfino il rapporto fra il divo e il suo fan (che non chiede più l’autografo, ma il selfie). La rivista 8½, nel numero attualmente in libreria ha chiesto al cinema italiano – a registi, attori, sceneggiatori – di autorappresentarsi con un selfie. Hanno aderito in molti, chi photoshoppandosi e chi scattando d’impulso. Ne è uscito un singolare autoritratto di una parte del cinema italiano. Per discutere del fenomeno, per interrogarsi sulle sue ricadute sociali e psicologiche, per ragionare sugli effetti che la pratica del selfie può avere sul cinema e per “recensire” i selfie arrivati in redazione (e visibili sulla parete dello spazio Cinecittà all’Excelsior al Lido), le redazioni di 8½ e di CinecittàNews hanno organizzato un incontro presso lo spazio Luce Cinecittà a Venezia, con la partecipazione di Stefano Bonaga, Gianni Canova, Laura Delli Colli, Piera Detassis, Ottavia Piccolo

Selfiemania, la parola a Stefano Bonaga, Piera Detassis e Gianni Canova:

La prima riflessione è di Gianni Canova: “Ho visto persone di una certa età chiedere l’autografo a Ninetto Davoli qui al Lido, ma i giovani ormai chiedono di scattarsi la foto coi divi. La testimonianza di un incontro ormai passa per l’immagine, i ragazzi scattano un ‘selfie’ ogni tre foto. Presto diventeranno due”. “Niente è pericoloso in sé – riflette il filosofo Bonaga – tranne ciò che riguarda l’uomo o la natura, quindi non gli oggetti. Tutto può essere pericoloso se non lo si usa bene. Ti metti male i pantaloni, inciampi, cadi e sbatti la testa. Parliamo piuttosto del tema antropologico, quello dell’”io”, che può diventare nel suo suono incredibilmente simile al raglio di un asino (Ih-o). L’io è un parassita della parolina e un parassita della vita. Polifemo chiede a Ulisse: “Chi sei?” e lui risponde “Nessuno”, per difendersi. Mettiamo che Polifemo sia il sistema e invertiamo le coordinate. Il sistema vuole che noi siamo nessuno. Se sei qualcuno per il sistema sei pericoloso. E allora il selfie diventa risposta individuale rispetto all’anonimato del sistema politico. Pietosa e grottesca quanto si vuole, ma comunque una risposta. Il selfie è un appello grottesco all’altro. Ed è la politica a dover restituire dignità alla presenza. La domanda è chiara: io ci sono. Mi volete riconoscere in qualche modo?”. “Si parla di ‘selfie’ come dimensione narcisistica – prosegue Canova – ma Narciso quando si specchia nello stagno è convinto di vedere un’altra persona, per questo si innamora. Mi sembra più una dimensione onanistica. E’ diverso dal farsi ritrarre da qualcun altro. Il “fammi una foto” implica una forma di socialità. Ti guardo e ti rappresento attraverso il mio guardarti”.

Piera Detassis qualche giorno fa, sul daily ‘Ciak in mostra’ che commenta le giornate al Lido scriveva: “Personalmente odio il selfie, sarà perché vengo male. Guardo dalla finestra della redazione che sovrasta la fila per la Sala Darsena e vedo tutti nella classica foto all’incontrario. Vado a girare il cinegiornale del giorno del seriorissimo (almeno così si diceva un tempo) Istituto Luce Cinecittà e alla fine mi chiedono un selfie da appiccicare al muro. Ma il Luce non era quello degli archivi storici e bla e bla…” Oggi dichiara: “Ho scritto le dichiarazioni di istinto, ma quello che trovo giornalisticamente agghiacciante è la rapidità che si sta sviluppando con i social di passare sopra alle notizie. Ho fatto la foto, la pubblico, finito. E l’intervista? La curiosità? L’incontro? E’ una cosa vecchia? Non interessa più? Se ho fotografato me stesso con l’attore non ha più importanza. Va bene, le conferenze oggi sono fin troppo accademiche e probabilmente i 2/3 dei un’intervista sono copincollate o aggiustate, ma che mi si dica che il selfie basta e avanza, non mi sta bene. Inoltre, ognuno ha il suo posto. L’attore deve stare di fronte a me. C’è chi pone le domande e chi deve rispondere. Quando i miei collaboratori mi dicono: ‘ho fatto la foto con, ho chiesto l’autografo a…’ io mi arrabbio, a meno che non si tratti di una dedica al giornale”.

“Sono un’analfabeta informatica – ammette Ottavia Piccolo – dei selfie sono vittima, quando esco da teatro, anche se non ho la popolarità dei divi internazionali. Ma non riguarda solo le persone famose. Venendo in vaporetto a Venezia quanta gente vedo voltata in quella posizione? Mi viene voglia di buttarli in acqua perché mi pare che in realtà i momenti, in questo modo, se li perdano. Vorrei dirgli: ‘guardate con gli occhi!’. Riguardo alla settima arte, quanto può essere cinematografico un selfie? “Sono quasi tutti realizzati in formato verticale”, sottolinea Canova. “E lo ha detto anche Gabriele Salvatores – ricorda Laura Delli Colli – che ha ricevuto tantissimi filmati che hanno costituito il suo Italy in a day, presentato proprio qui al Lido. Ha chiesto, la prossima volta, di mandare anche filmati i formato orizzontale, quello del cinema. Nel giornalismo diventa invece una questione di referenzialità. Estendiamo il discorso ai blog. E’ controverso che una persona si possa auto inserire nelle logiche editoriali con tanta facilità. Eppure, se ci si oppone, c’è il rischio di cadere in logiche ‘da casta’”. “Si presenta un problema di ‘preparazione’ – riflette ancora Canova – la storia dell’arte è piena di autoritratti ma prima di poterlo fare un artista doveva aver dimostrato di saper dipingere anche altro. Così come il giornalista doveva passare 22 esami prima di poter essere pubblicato su ‘Ciak’ e poter usare la prima persona. Viene meno un obbligo sociale: prendere la parola solo quando si è dimostrati di essere competenti”.

Per l’uscita di Edge of Tomorrow la superstar Tom Cruise ha deciso di sfruttare il selfie per promuovere la pellicola. Ha invitato a fotografarsi con lui fan, addetti ai lavori e anche i giornalisti. Il che ha creato, proprio sul blog di 8 1/2 , anche un po’ di polemica: i giornalisti che hanno accettato, magari anche con un certo compiacimento, di entrare a far parte di questo gioco, non si sono forse allontanati dal loro mestiere di cronisti per entrare a far parte di logiche più affini al marketing e alla promozione? “Probabilmente sì – risponde Detassis – ma Tom Cruise è una star fuori scala, una macchina da guerra. A Roma ha chiesto un red carpet di un’ora e trentacinque minuti, ha chiesto di essere intervistato da una persona che parlasse perfettamente inglese e non gesticolasse troppo. Inoltre ha voluto che visitasse la chiesa di scientology, e mi ha chiamato a casa personalmente, perché non gli piaceva la foto che avevo scelto per una copertina. Io ero incredula, l’ho mandato a quel paese, credendo fosse uno scherzo. Questo per dire che, con Cruise, fai marketing in ogni caso, anche con una copertina o un’intervista”.  (Ang.)


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