3 Luglio 2017
E la Storia d’Italia corre parallela
Pubblichiamo un'anticipazione dell'articolo sulla storia di Cinecittà che uscirà prossimamente sul numero di settembre della rivista bimestrale 8½, nell'ambito di uno speciale dedicato agli 80 anni de
(…) La guerra lasciò gli stabilimenti di Cinecittà in condizioni disastrose. Tutto ciò che era utile e asportabile non c’era più: prima per il trasferimento a Venezia, durante la Repubblica di Salò, delle attrezzature necessarie per il suo effimero “Cinevillaggio”, poi per i prelevamenti dei tedeschi che trasferirono molto altro materiale in Germania, infine per i saccheggi e gli incendi che accompagnarono il passaggio del fronte.
I profughi, particolarmente quelli provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia, erano stati sistemati alla meno peggio nei fabbricati di Cinecittà, cosa che rendeva l’attività cinematografica impossibile.
Nel dibattito politico dell’epoca, varie voci si levarono, considerando sia Cinecittà che l’Istituto Luce dei residui del fascismo da eliminare al più presto; prevalse invece l’idea di una loro trasformazione, mantenendone l’indirizzo pubblico, un’idea proveniente soprattutto da Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio in tutti i governi De Gasperi.
L’operazione comportò lo spostamento dei profughi giuliano-dalmati nell’ex villaggio operaio che era servito per la costruzione dell’Eur, la risistemazione degli studi di Cinecittà e l’emanazione nel 1949 di due leggi (la 448 e la 958) che pongono le condizioni affinché i produttori americani trovino conveniente produrre kolossal nel nostro Paese.
Il primo film del dopoguerra girato a Cinecittà è Cuore, da De Amicis, di Duilio Coletti (1948), ma già l’anno successivo arrivano gli americani con Il principe delle volpi di Henry King, ambientato nell’Italia del Medioevo.
Comincia così la “Hollywood sul Tevere”. A Cinecittà saranno girati fra gli altri Quo Vadis?, di Mervyn LeRoy (1951), Vacanze romane di William Wyler (1953) e Ben Hur dello stesso regista (1958), Cleopatra (1963) di Joseph L. Mankiewicz. Registi, attori, tecnici americani a spasso per Roma e dintorni, fra alberghi, locali da ballo, ristoranti, paparazzi e gossip: una americanizzazione della quotidianità prodotta da questa temporanea immigrazione creativa che ha modificato definitivamente il volto della città e ha contribuito all’affermazione in Italia del modello di vita americano.
Negli stessi anni Cinecittà ospita anche una grande stagione produttiva del cinema italiano, che si svolge prevalentemente a Roma, ma si avvale anche di altri stabilimenti (De Paolis, Safa Palatino, Dinocittà, Elios-Titanus), generalmente legati ad alcuni produttori e oggi scomparsi o trasformati in studi per la televisione.
Si determina quasi una polarità: mentre gli americani preferiscono girare a Cinecittà, o Dinocittà (il cui nome la dice lunga sulla concorrenza in atto), i produttori importanti preferiscono collocare nei propri studi le produzioni dei loro registi più significativi. Un esempio: in Una vita difficile di Dino Risi (1961) una famosa scena è girata a Cinecittà (con Alessandro Blasetti, Silvana Mangano e Vittorio Gassman nel ruolo di se stessi), ma il film è una produzione De Laurentis ed è realizzato negli stabilimenti della casa.
Cinecittà è qui una delle location della Roma pittoresca, in cui si gira un peplum biblico fra centurioni e apostoli, che consumano in un sottopassaggio-catacomba il loro cestino per il pranzo.
Vi sono però rilevanti eccezioni e la più importante si chiama Federico Fellini. Il suo modo di creare e di lavorare con gli attori ha sempre trovato negli ambienti e nelle maestranze di Cinecittà una forte consonanza. Amava, lo sappiamo, girare negli Studi, o in esterni diversi da quelli originali, a costo di trovarsi il sole contromano perché era il Tirreno e non l’Adriatico (Amarcord).
Il grande artigianato scenografico di Cinecittà si sentiva ingaggiato, sfidato dalla costruzione di questo mondo parallelo, qualcosa di più di un set. Per La dolce vita (1960) fu ricostruito il percorso di Via Veneto, con un’unica significativa differenza rispetto all’originale (e non lontana) strada del centro di Roma: il set è in piano, non in salita come nella realtà. Fellini è il regista italiano che si è avvalso con maggiore continuità di Cinecittà e che più ha contribuito al suo mito.
Per quest’aura che ormai circonda Cinecittà, ma anche per la minore disponibilità di altri Studios che stanno chiudendo, gli Anni ‘70 e ‘80 vedranno a Cinecittà Luchino Visconti, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Sergio Leone. (…)
(Gabriele D’Autilia e Enrico Menduni )