Luce Cinecittà

6 Giugno 2019

Selfie, i millennials del Rione Traiano

“Stanotte ho fatto un sogno strano: c’era Davide che era vivo”, dice uno dei protagonisti di Selfie, film doc di Agostino Ferrente che prende il via dall'uccisione a Napoli di un ragazzo scambiato da

BERLINO – Parte da un fatto di cronaca Selfie, il documentario di Agostino Ferrente presentato a Berlino (Panorama). Nell’estate del 2014 nel Rione Traiano, uno dei quartieri più difficili di Napoli, viene ucciso Davide Bifolco,un ragazzo di sedici anni in sella a un motorino che viene colpito durante un inseguimento da un carabiniere che l’ha scambiato per un latitante in fuga. Come tanti adolescenti della zona, Davide aveva lasciato la scuola e sognava di diventare un calciatore, ma “era un ragazzo onesto e pieno di vita, e la vita gliel’hanno strappata senza motivo”, lo definisce un suo amico. Una vicenda che probabilmente avrebbe avuto un epilogo diverso al Vomero, quartiere della Napoli bene, dove i carabinieri vedendo tre ragazzi sul motorino senza casco avrebbero magari pensato a una bravata e non avrebbero subito sparato, sottolinea il regista che precisa: “Non riguarda però solo Scampia o Traiano, è un modello che si ripete in tutte le periferie del mondo. Come i poliziotti che a New Orleans sparano i neri perché sono tutti criminali”. In questo tipo di periferie – continua Ferrente – il ragazzo che si salva è l’eccezione, il miracolo da raccontare: “Come ho fatto anche nel mio precedente Le cose belle, cerco di mostrare ragazzi che ce la fanno, anche perché la realtà problematica è sotto gli occhi di tutti, ampiamente rappresentata da giornali e tv. Ma c’è chi ce la può fare a salvarsi, solo che ha bisogno di aiuto e della possibilità di esprimere il proprio talento, che può essere anche fare il barista o il parrucchiere. Se in un quartiere ci sono solo motorini e sale da biliardo, come quella in cui è stato ucciso Davide, la prospettiva possibile sembra una sola.”

Proprio il racconto del contesto nel quale si è consumata la tragedia è quello su cui Ferrente si sofferma, partendo dallo sguardo di due amici di Davide suoi coetanei, Alessandro e Pietro, a cui il regista propone di raccontare in presa diretta se stessi, l’amicizia che li lega, il loro quotidiano, lo sforzo di rimanere onesti in un quartiere difficile, la morte di Davide. Ha chiesto loro di farlo filmandosi attraverso uno smartphone usato in modalità selfie: “Non occorre prendere per forza le distanze dalla cultura popolare, trovo snob sottovalutare le potenzialità dei mezzi tecnologi popolari ed etichettare banalmente il selfie come trash. Certo è un atto esibizionista e narcisista, però è anche un’auto-rappresentazione, uno specchio. Invece di raccontare ciò che gli occhi dei ragazzi vedono, i palazzoni popolari e il degrado, ho voluto raccontare gli occhi di chi guarda quel mondo”. I due ragazzi sono molto amici ma anche complementari, hanno opinioni diverse sul futuro e differenti atteggiamenti nei confronti delle possibilità che hanno. Pietro vuole diventare parrucchiere, ma al momento è disoccupato, ed ha una famiglia alle spalle che lo segue ed è presente. Alessandro, invece, è cresciuto senza il padre, di cui sente la mancanza, fa il garzone in un bar dove guadagna poco ma ha un lavoro onesto in un quartiere dove lo spaccio è un ammortizzatore sociale di facilissimo accesso. L’uno nel filmarsi vorrebbe mostrare solo le cose belle del suo quartiere perché le brutte già si conoscono, l’altro pensa che non parlando anche delle difficoltà non si possano far comprendere appieno gli aspetti positivi del rione.

Sullo schermo le immagini colorate dell’auto-racconto dei ragazzi si alternano a gelide e asettiche riprese delle telecamere di sicurezza che sorvegliano le strade del rione (in realtà provenienti da camere montate affianco e come clone di quelle reali). Il risultato è un interessante miscuglio di soggettiva-oggettiva, su cui si avverte, però, cupo un diffuso senso di predestinazione che sembra opprimere ogni cosa, anche la libertà di sognare. “Stanotte ho fatto un sogno strano – dice Alessandro nel film – c’era Davide che era vivo e mi sorrideva. Ma poi ho incontrato i carabinieri e uno di loro mi ha sparato nel cuore”.

Come ha reagito il quartiere alla presenza del regista? “I primi mesi mi chiamavano tutti Mario – racconta Ferrente – e all’inizio non ne capivo il motivo. Poi mi è stato spiegato che è il nome con cui si avvisa della presenza di uno sbirro, evidentemente mi avevano scambiato per un poliziotto. Mi hanno accettato bene quando hanno saputo che volevo girare un film sulla morte di Davide, una vicenda che vivono con un profondo senso di ingiustizia, anche perché al carabiniere è stata sospesa la pena”.

Distribuito nelle sale da Luce Cinecittà Selfie è una produzione Arte France e Magneto con Casa delle Visioni e Rai Cinema e in collaborazione con Luce Cinecittà.

Carmen Diotaiuti

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