23 Ottobre 2019
Elisa Mishto: l’ozio come forma di lotta e resistenza
Ad Alice nella città Stay Still, coproduzione Italia-Germania che sin dal titolo fa riferimento alla capacità di restare immobili, fermi ad osservare un mondo in continuo movimento. Nel film, in sala
Celebra l’arte del non far nulla in una società ossessionata dai ruoli sociali, il film di Elisa Mishto, Stay Still, che sin dal titolo fa riferimento alla capacità di restare immobili, fermi ad osservare un mondo in continuo movimento. Per arrivare poi a quella rivoluzione attiva, sia sociale che politica, fatta di rottura, lotta e consapevolezza. Protagoniste due giovani donne, Julie e Agnes, l’una è un’ereditiera testarda e sarcastica che vive secondo il manifesto del “non fare nulla”: non studiare, non lavorare, non avere amici, e di tanto in tanto, più o meno volontariamente, si fa ricoverare in una clinica psichiatrica per sfuggire al mondo. L’altra è una delle infermiere della clinica, con una bimba piccola e l’ansia di soddisfare le aspettative altrui, ma col problema di non aver assolutamente capito cosa voglia dire essere madre di una figlia che ha voluto, probabilmente, più per riconoscimento sociale che altro. Quando le due donne si incontrano, nonostante le evidenti differenze, iniziano una ribellione, basata sul rifiuto del fare e dell’eseguire gli ordini, che mette in discussione ogni cosa, dentro e fuori di loro.
“Qualche anno fa, mentre giravo uno dei miei primi documentari sulle istituzioni psichiatriche, mi sono imbattuta in un universo che mi ha profondamente colpita. Un mondo nascosto, affascinante, fatto di dolore ma anche di grande esercizio di fantasia, dove i pazienti sono personaggi un po’ felliniani, con una grande forza di sconvolgere la realtà e di plasmarla secondo i propri bisogni”, racconta Elisa Mishto, regista di origini italiane, una ex pugile e video-artista che vive a Berlino ormai da vent’anni e che con Stay Still fa il suo debutto al lungometraggio di finzione. Il film arriva nelle sale nel primo semestre del 2020 con Istituto Luce Cinecittà, con le musiche originali di Sascha Ring (Apparat), uno dei nomi più importanti nella scena elettronica contemporanea che ha già in passato lavorato per autori italiani, tant’è che ha firmato anche la colonna sonora de Il giovane favoloso e di Capri-Revolution, per cui ha recentemente vinto un David di Donatello. “Mi piace lavorare con registi italiani, ma in realtà considero Elisa, che vive in Germania ormai da vent’anni, più tedesca, anche nei modi. Ho fatto altre musiche per film, ma questo è un film nuovo e abbiamo tentato di restituire un effetto più realistico possibile, impiegando parecchio tempo per decidere la colonna sonora che, in maniera poco usuale per il tipo di musica che solitamente faccio, si basa molto sull’utilizzo della chitarra”.
Nel cast, oltre alle due protagoniste Natalia Beltiski e Luisa-Céline Gaffron, anche Giuseppe Battiston.
Qualche anno fa, mentre giravo uno dei miei primi documentari sulle istituzioni psichiatriche, States of Mind, mi sono imbattuta in qualcosa che mi ha profondamente colpita. All’epoca stavo cercando un soggetto per la mia prima sceneggiatura e ho scoperto questo mondo particolare, nascosto, affascinante, fatto di tanto dolore ma anche di un grande esercizio di fantasia. I pazienti di una clinica psichiatrica sono personaggi un po’ felliniani, con un grande forza di sconvolgere la realtà e di plasmarla secondo i propri bisogni.
Le protagoniste di Stay Still sono due personaggi all’opposto, una ha l’ansia di soddisfare le aspettative sociali, l’altra di sfuggirne. Qual è il loro punto di incontro?
Julie e Agnes sono due personaggi diversi, una molto passiva, l’altra iperattiva ma in modo caotico. Si incontrano in questa loro disfunzione, che non riescono, inizialmente, a far diventare una rivoluzione attiva. L’aspetto più politico del film vuole essere un messaggio di rottura, di consapevolezza, di riscoperta di valori. Vuole trasmettere il bisogno di lottare per giungere a un cambiamento, essere una spinta all’essere attivi sia socialmente che politicamente.
Cosa rappresenta il mondo della clinica psichiatrica, che pare quasi contrapposto al mondo esterno, a tratti respingente?
Da una parte c’è il mondo della clinica, un mondo un po’ magico, con delle regole sospese. Un universo in cui Julie, che deve ancora capire cosa è e cosa vuole, si rinchiude come in un grembo materno. Dall’altro c’è il mondo esterno che appare o sotto forma di natura, senza presenza umana, o come ambiente urbano caotico e respingente nei confronti della protagonista.
Nel film viene mostrato anche il potere liberatorio del non fare nulla, la scelta politicamente radicale dell’inerzia.
Mi ritrovo molto nell’aspetto dello star fermi, raccontato nella storia di Julie che nasce da un percorso più personale. Lei appartiene a una classe non ricca ma sicuramente privilegiata, ed è qualcosa di cui si rende conto, ma all’inizio non sa come gestire. Il suo rimanere ferma è il modo di non sapere affrontare quella che percepisce essere un’ingiustizia. È una specie di profeta che non ha ancora raccolto il suo richiamo all’essere qualcosa.
Com’è avvenuta la scelta delle due interpreti, Natalia Beltiski e Luisa-Céline Gaffron?
Natalia l’ho vista la prima volta a teatro, in un pièce in cui era l’unica donna e mi aveva colpita per il suo essere un po’ algida ma al tempo stesso molto forte. All’inizio avevo molta paura di non trovare l’interpreta adatta a fare Julie, un personaggio complesso. Ma appena l’ho vista mi ha convinta subito. L’altra attrice l’abbiano cambiata all’ultimo momento, perché abbiamo impiegato sei anni a fare il film per questioni produttive e al momento di iniziare finalmente le riprese, l’interprete inizialmente scelta era incinta.
È ancora difficile, secondo lei, per una regista donna riuscire a realizzare un documentario di finzione nel nostro Paese?
L’Italia è il primo Paese che ci ha dato un finanziamento, e dove non mi sono mai sentita discriminata in quanto donna. A dire la verità mi aspettavo di dover combattere di più in Italia, ma non è stato così, anzi, a volte il gender gap è stato qualcosa che ho avvertito maggiormente in Germania.
Il film ha le musiche originali di Sascha Ring (Apparat), uno dei nomi più importanti nella scena elettronica contemporanea. Come è andata la vostra collaborazione?
Sascha aveva già curato le musiche di un mio cortometraggio precedente. Anche lì all’inizio mi aveva suggerito di non utilizzare musiche originali, ma io ho insistito. E in quel caso, come in questo, ne sono poi venute fuori musiche bellissime, che abbiamo mescolato con classici pezzi. Il processo collaborativo con lui è sempre molto piacevole.Sascha non nasce compositore per il cinema, viene dalla scena musicale più classica, ma quando gli piace un film offre tutto il suo aiuto e si mette a completa disposizione della storia.