22 Novembre 2020
Fasano: “Il ‘mio’ Pino Pascali, opportunità di dialettica con il materiale di repertorio”
Fasano: “Il ‘mio’ Pino Pascali, opportunità di dialettica con il materiale di repertorio”
Un documentario che, con l’affascinante prepotenza – sempre attuale – del bianco&nero assoluti stimola la riflessione e la voglia di approfondire la “prepotenza immaginativa” di un artista con l’abilità di espirare, ispirare e saper mettere in forma il futuro: Pino, nella sezione “Italiana.doc” del TFF, è una riflessione visiva e di concetto, dedicata all’arte e al profilo di Pino Pascali, artista di natali baresi, scomparso nel settembre del ’68 in un incidente di motocicletta sul Muro Torto di Roma, a cui oggi è dedicato un museo nella sua Terra di Puglia, “Museo Pascali” di Polignano a Mare.
Cinque bachi da setola e un bozzolo (1968). Un titolo che è lo spaccato di una storia, di questa storia in formato documentario. È, infatti, il nome dell’opera di Pascali che la Fondazione omonima ha acquistato dal gallerista – e amico personale di Pino – Fabio Sargentini, nel 2018, quando è nato il progetto #Pascali2018, nella ricorrenza del 50° anniversario dalla scomparsa, e il Museo ha acquisito l’opera suddetta: Pino Musi è autore degli scatti fotografici presenti nel film, che documentano l’evento. Le altre fotografie presenti sono di Pascali stesso, scattate tra il ’63 e il ’68.
“Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine dell’infanzia” … che “avvenne in una caverna sul mare, in un tempo lontano”: questa è la prima frase del film, fuori campo, su sottofondo visivo del Cosmo, e rumore dietetico di qualcosa che richiama l’altrove, l’eterno, un fruscio leggermente disturbante che potrebbero sembrare onde radio, come a cercare un contatto, oppure onde del mare, forse quello della sua amata Polignano.
Pino è soprattutto una galleria fotografica bicolore, di un bianco&nero sicuri, definiti, con un contrasto sofisticato, un film che gode moltissimo anche della sapienza del mestiere primo del suo regista, Walter Fasano, soprattutto montatore d’esperienza, pratica che si sente tutta, intensa e raffinata, in un lavoro che sceglie, per la sua quasi totalità, di essere – visivamente – una sequenza di immagini fotografiche, che le possibilità del montaggio rendono più che mai vive di dinamismo vitale, con l’accompagnamento di una narrazione fuori campo, una miscellanea di lingue, con le voci femminili di Monica Guerritore, Alma Jodorowsky e Suzanne Vega.
Chi è Pino Pascali per Walter Fasano? Ovvero, la scelta del soggetto è stata sostanzialmente commissionata dal Museo nel 50° anniversario dalla scomparsa dell’artista, eppure il film sembra riflettere qualcosa di molto intimo/personale, non solo una storia messa in forma cinematografica.
La domanda non è di facile risposta. Sì, è vero, è un film su commissione, però è anche vero che io sono nato e cresciuto a Bari, fino a quando gli studi e la vita mi hanno poi portato lontano, prima a Bologna al DAMS, poi a Roma al Centro Sperimentale: mi era capitato di incontrare l’arte di Pascali negli Anni ’80; nonostante Pino abbia avuto diverse fasi di scoperta e riscoperta, e in quel momento non fosse al centro dell’attenzione storico-critica dell’arte, alla Pinacoteca provinciale di Bari erano esposte delle sue opere e una professoressa d’italiano del liceo ci aveva portati a vedere la mostra: tutta la classe rimase folgorata da quest’arte che sapeva comunicare in maniera giocosa e diretta. Per cui, quando questo lavoro m’è stato commissionato, ho percepito che un cerchio si chiudesse: c’era una storia di un conterraneo da raccontare, che in qualche maniera avevo già incontrato, e sentivo avesse raccontato – ma anche proiettato altrove – alcuni dei temi ricorrenti di quello che è il rapporto con la terra di Puglia, con il mare, che per noi è così importante; al tempo stesso, approfondendo la conoscenza dell’opera di Pascali, m’è sembrato da subito ci fosse questa dimensione metafisica, che permettesse di traslare il racconto, e istintivamente ho percepito che avrei avuto la possibilità di dire qualcosa di ‘mio’, cercando di non tradire Pino. La miglior maniera per non tradirlo non era raccontarne per filo e per segno la biografia, ma cercare dei segni e proiettarli altrove, questo è stato un po’ il mio procedimento.
Un tema su cui si concentra il doc è ‘il tempo’, una riflessione più esistenziale che cronologica: perché ha scelto di far ruotare un’importante parte del racconto intorno a questo soggetto?
Quando ti scontri, o ti incontri, con una biografia come quella di Pascali, con una morte all’apice – o meglio, ‘sull’orlo della gloria’, come dice la sua lapide – è inevitabile porsi delle questioni esistenziali: è molto facile tramandare un certo tipo di figure direttamente nel mito – penso a rockstar come Jim Morrison o ad attori come James Dean, che diventano immediatamente delle icone e questo ne offusca la parabola vitale – con il grande mistero della morte in gioventù, che è contro le regole biologiche della vita di adesso, quindi volevo evitare che fosse la morte l’elemento cardine attorno a cui far ruotare la narrazione; però, il Muro Torto, le immagini di questa galleria di Roma in cui Pino ha avuto il suo incidente mortale, chiaramente tornano come luogo di transito, come una porta dimensionale, che ci porta avanti e indietro nel tempo, e che ci riporta sempre un po’ al nocciolo del discorso. Parlando della storia di una vita, è venuto naturale usare ‘il tempo’: era ovvio parlare del passato, ma mi sembrava che le opere di Pino parlassero anche molto di futuro, di una dimensione quasi fantascientifica; come forse s’intuisce, una fonte d’ispirazione per il film è stato La jetée (1962) di Chris Marker, un film completamente composto da fotografie, un cortometraggio di fantascienza, e io sono stato affascinato dall’idea di caricare dei segni con una valenza fantascientifica, raccontando un po’ il futuro di un passato, un futuro che non c’è stato, di un passato che in parte conosciamo, cercando di liberarne alcuni aspetti. L’arte di Pino, come tutta l’arte che rimane nel tempo, riesce a trascendere dalla dimensione spazio-temporale in cui è stata creata e riesce a parlarti in termini universali, quindi anche diacronici.
Pino, che è cinema, è costruito con immagini non dinamiche, fotografiche, che però godono del ritmo offerto dalle opportunità del montaggio. Perché raccontare una biografia cinematografica con una galleria di fotografie? Una scelta che potrebbe avere a che fare con il suo mestiere principale, il montatore?
Non credo possa accadere diversamente, chiaramente porto dentro di me il mio lavoro, ma più che il mestiere tout-court, un approccio creativo alle cose: sia che si tratti di un film di finzione, sia che si tratti di un prodotto più di ricerca, è sicuro che l’approccio con i materiali sia quello di scavarne e scovarne la natura, per cercare di assemblarli nella maniera più interessante possibile; in questo caso specifico, l’uso delle fotografie è stata un’intuizione creativa che non so bene da dove sia venuta, ma – ripeto – il riferimento di Chris Marker è stato certamente importante. Per me è stato uno scarto importante per una semplice motivazione: quando dal Museo Pascali mi hanno chiesto di documentare questa compra-vendita dei bachi da setola immediatamente sono stato assalito dal terrore di girare cose istituzionali, che non mi interessava fare o non sarei nemmeno stato in grado di fare al meglio, e quindi il primo pensiero – come succedeva a Piero Tosi, che raccontava gli accadesse alla proposta di ogni film – è stato di scappare, ma nel giro di 24 ore m’è venuta in mente la possibilità di questo racconto fotografico, di fotografie in bianco&nero, che s’è materializzato in virtù di questa grande passione per il film di Marker e per un certo cinema francese degli Anni ’60, tra cui quello di Alain Resnais, che sembrava – nella sua ieraticità – a volte fatto anche di immagini fisse. In più, la documentazione in movimento di Pino non è ricchissima, qualcosa è presente nel film, ma non è esaustiva, per cui m’è sembrata una conseguenza naturale. Poi, una cosa che ha benedetto questa scelta è stata che, a montaggio iniziato, Carla Ruta Lodolo, moglie di uno dei due pubblicitari per cui lavorava Pino Pascali, ha donato al Museo un gran numero di fotografie scattate dallo stesso Pino in occasione delle sue ricerche per le pubblicità che veniva chiamato a creare per lo Studio Lodolo-Saraceni, un repertorio ricchissimo: è stata una rivelazione, a quel punto potevo raccontare con fotografie che erano l’occhio di Pino stesso. Per me, ogni sua foto è come se fosse una sua opera, è stato un lusso e una fortuna inaudita.
Il doc sceglie quasi interamente il bianco&nero: qual è la potenza di questo bicolore?
Gran parte del cinema che amo è in bianco&nero, al punto che alcuni cineasti, all’arrivo del colore nel cinema, sono rimasti quasi spiazzati, o comunque avevano bisogno di capire come introdurre il colore nella propria poetica, penso ad autori come Antonioni e Fellini, per citarne due, e più di recente penso a capolavori i come Toro Scatenato. Per i prossimi progetti che ho in mente di realizzare, vagamenti più narrativi, mi viene spesso in mente il bianco&nero, credo ci sia una mia passione naturale, e poi è anche un escamotage narrativo: quando, nel film, tutto punta all’arrivo in cui i bachi da setola prendono colore, quando hanno finalmente raggiunto la loro destinazione nel Museo di Polignano, quel momento di colore per me è il riscatto di circa 60 minuti in bianco&nero, anche se poi ci sono altri piccoli elementi di colore nel film, però – fosse anche solo per quello – mi sembrava una buona idea per far esplodere la potenza cromatica dei bachi nella loro interezza.
Il film viene narrato da voci fuori campo in lingue differenti – italiano, inglese, francese, che s’alternano: qual è il significato di questa scelta?
Fatico a trovare una spiegazione razionale, probabilmente arriva dal fatto che ho la fortuna, lavorando con registi come Luca Guadagnino, di collaborare a progetti internazionali, in cui non necessariamente la lingua italiana è la prima che viene in mente; poi, Pino mi sembra che, di suo, fosse già proiettato verso una dimensione internazionale: è già proprietà del mondo, le sue opere sono esposte a New York, a Londra, quindi m’è sembrato naturale avere un atteggiamento poliglotta, e poi la varietà delle lingue permette un mélange di suoni che ho pensato potesse arricchire l’esperienza percettiva, oltre a darmi la possibilità di coinvolgere degli straordinari talenti vocali/attoriali internazionali.
Il doc fa uso anche di repertorio dell’Archivio Luce: qual è il valore storico e artistico che porta con sé il girato d’archivio?
Il materiale di repertorio, i film fatti con materiali di repertorio, sono un oggetto di ricerca centrale, su cui già in passato abbiamo cercato di avere dei risultati, penso al film che ho firmato con Guadagnino – Bertolucci on Bertolucci -, interamente composto di interviste di repertorio di Bernardo; nel caso specifico delle fotografie d’archivio, ci tengo a ricordare che sono di grandissimi fotografi dell’epoca, come Elisabetta Catalano, Ugo Mulas, il grandissimo Claudio Abate, testimoni del tempo: e, in generale, tutto il materiale di repertorio per me è occasione di riflessione sul passato, con la possibilità che viene data – anche in virtù del lavoro che faccio – di rielaborazione di questi stessi materiali, un’opportunità di ricombinazione; non amo molto i film in cui il repertorio viene usato in maniera illustrativa, perché mi piace sempre pensare ci sia una dialettica che trascenda dall’elemento in sé, ecco perché i materiali d’archivio per me sono vivi. Non è questo il mio primo incontro con materiale di repertorio, non sarà sicuramente l’ultimo, e non vedo l’ora di tornare a collaborare con il Luce, con gli altri archivi internazionali, per portare avanti la ricerca in questo senso, davvero non vedo l’ora.