Documentari

10 Settembre 2021

Roland Sejko: “Storia di Alfredo, l’operatore Luce che raccontò l’Albania”

Roland Sejko a Orizzonti Extra con La macchina delle immagini di Alfredo C., prodotto e distribuito da Luce Cinecittà. Un romanzo avvincente su due totalitarismi a confronto

VENEZIA – L’incredibile storia di Alfredo C. cineoperatore al servizio di due dittature, il fascismo prima e il regime comunista albanese poi. Un uomo diviso tra due mondi, estraneo forse a entrambi ma capace di raccontare un’epoca, quella dei totalitarismi del Novecento, con i suoi drammi individuali e collettivi attraverso il ritmo di una ripresa che si vuole neutra, impassibile, ma che invece è al servizio della inesorabile macchina della propaganda, ma anche nascosta dentro al segreto di un piccolo uomo che ripete nella sua testa La vispa teresa per non perdere il ritmo, forse per darsi coraggio.

È quanto racconta Roland Sejko in La macchina delle immagini di Alfredo C, in concorso a Orizzonti Extra, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà. Un romanzo avvincente costruito sui materiali principalmente dei due archivi e con una parte di messa in scena affidata a Pietro De Silva, attore che ha il compito di portarci dentro i meccanismi della memoria, in una sorta di lettera d’amore per la pellicola. De Silva, che aveva colpito Sejko per il suo ruolo in L’ora di religione, ha lavorato essenzialmente “sulle emozioni” nelle scene alla moviola che sono state girate al Teatro 3 di Cinecittà: “Roland voleva vedere in dettaglio le azioni dell’operatore ripreso mentre lavorava in modo maniacale con gli strumenti tecnici – rivela – il mio è un ruolo senza parlato ma in cui dovevo trasmettere l’amore per la pellicola di Alfredo”.  

Sejko, vincitore del David di Donatello con Anija/La nave, lavora da molti anni a Cinecittà – tra l’altro dirige la testata giornalistica dell’Archivio – e conosce a fondo il mondo dei materiali Luce. Da questi nasce la ricerca storica che ha portato alla costruzione della docufiction. Che è anche il racconto dei 27mila italiani rimasti bloccati in Albania nel 1945. Nell’aprile del 1939 l’Italia fascista aveva occupato il Paese inviando migliaia di operai, coloni e tecnici italiani. Le aspirazioni imperialiste di Mussolini dovevano prendere le mosse da quell’avamposto nei Balcani per “spezzare le reni alla Grecia”. Come sappiamo le cose non andarono come previsto e nel novembre del 1944 l’Albania venne liberata. Il nuovo regime comunista chiuse i confini ponendo all’Italia infinite condizioni per il rimpatrio dei suoi cittadini (ce ne volle per riportarli in patria e gli ultimi a rimpatriare furono i morti).

Tra i coloni trattenuti c’erano ingegneri  e tecnici in grado di scavare gallerie. E c’era anche un operatore cinematografico, professionalità che scarseggiava, anzi era del tutto assente. Fu forse la sua fortuna – chissà – perché venne assoldato subito dal comandante per documentare il nuovo corso, gli evviva e gli abbasso, i nuovi bagni di folla. Affiancato da un operatore russo che gli “dava la linea”.

Come nasce il progetto?

Durante le lunghe ricerche negli archivi cartacei italiani e albanesi cercavo di trovare una chiave di racconto, tra le varie liste conservate nell’Archivio Centrale dell’Albania, in un documento di rimpatrio ho notato un nome che conoscevo: era quello dell’operatore dell’Istituto Luce in Albania. Alfredo Cecchetti non è un nome importante tra gli operatori del Luce, appare solo nei documenti della sede dell’Istituto Luce a Tirana e a Roma, e nei titoli di coda dei documentari girati durante il fascismo a Tirana. Ora il suo nome, con tanto di firma, lo trovavo in un documento indirizzato al Ministero della Stampa, Propaganda e Cultura Popolare del Governo Democratico dell’Albania. ‘Il sottoscritto Alfredo Cecchetti, operatore foto-cinematografico presso codesto Ministero, chiede di essere rilevato dal suo compito per poter rimpatriare in Italia per ragioni familiari’. Dichiarava tra altro di avere svolto bene il suo compito come operatore e di avere dato ‘istruzioni che possiamo chiamare anche lezioni’ al compagno MAK, pseudonimo di Mandi Koçi, il primo operatore cinematografico albanese, il cui nome si troverà dalla fine degli anni ‘40 su quasi tutti i documentari di propaganda albanesi.

Siamo guidati dalle immagini e dalla voce di Alfredo C. che è quasi un diario. Come hai scritto questa parte?

La scrittura ha avuto varie fasi. Inizialmente lo vedevo come un romanzo e scrivevo in terza persona. Dopo varie prove, mi sono reso conto che bisognava entrare dentro al pensiero di Alfredo e piano piano è diventato un monologo interiore che ci porta verso la scoperta finale in un clima sempre più cupo.

Un film anche molto personale, per te che sei diviso tra due identità e due culture, essendo nato in Albania, e che lavori all’Archivio Luce.

Non avrei potuto fare questo film se non avessi avuto le esperienze che ho fatto nella mia vita. Solo lavorando al Luce poteva nascere, anche perché quando mi sono imbattuto nel nome di Alfredo Cecchetti l’ho subito ricollegato ai filmati del periodo fascista. Inoltre, tutti i miei documentari guardano all’Albania, il mio paese d’origine. Si cerca sempre di mettere insieme i pezzi della propria vita.

Nel film Alfredo annota che Mussolini non ama essere ripreso di spalle, mentre il comandante Enver Hoxha non se ne lamenta. In questo modo sottolinei differenze e affinità tra due regimi totalitari.

Sì, intendo dire che siamo di fronte a due dittatori. È vero che a Mussolini non piaceva essere ripreso di spalle. Ci sono istruzioni molto precise su come doveva essere filmato il duce, si trovano all’interno di documenti del Minculpop. In tutte le frasi di Alfredo C. nel film troviamo ricordi degli operatori del Luce, notazioni apparse sia sulla rivista Cinema che nel dopoguerra in altri testi. Molti di loro hanno proseguito la carriera al cinema: Otello Martelli è diventato operatore di Fellini, Romolo Marcellini ha girato le Olimpiadi del 1960. In tanti hanno continuato il lavoro di ripresa.

Di Alfredo Cecchetti si sono perse le tracce, invece.

Esatto, ho fatto delle ricerche a Oriolo Romano, all’anagrafe, ma non risulta nulla a partire dal 1946. Aveva un figlio ma non siamo riusciti a raggiungerlo. È un piccolo personaggio dalla vita umile, ma il suo lavoro ha lasciato una testimonianza importante che ci permette di rivedere il passato con occhio critico.

Cristiana Paternò

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