Trieste, città di confine e simbolo dell’unione cosmopolita, dove convivono persone di culture e nazionalità diverse, che hanno mantenuto vive le proprie tradizioni nei luoghi di culto, come i nove cimiteri appartenenti a diverse religioni. In questo contesto e in questi luoghi, Giorgio Pressburger cerca, tra dubbi e tormenti, i segni della propria fede, mettendo a nudo la sua esperienza, scardinando certezze e false ipocrisie, entrando nelle pieghe più nascoste della mente umana. Per ricostruire la genesi della “disperazione della fede”, mettendo da parte ogni finzione e cercando di essere il più sincero possibile, Pressburger indaga le paure infantili, le menzogne dell’età adulta, l’illuminazione della grazia. Infine, attraverso il sostegno di alcuni compagni di viaggio come Dostoevskij, Kafka e Kant, il suo discorso si trasforma in un serrato confronto con la questione del male e della sofferenza. Dubitare è una delle possibilità della fede. Oscillare paurosamente tra un credo fiducioso e il più profondo avvilimento per l’orrore di cui è permeato il mondo. Oppure accettare con scetticismo verso tutto, come unica cornice della nostra esistenza, la realtà del mondo così com’è, senza scappatoie. Cercando di costruire un mondo senza la tracotanza del profitto e senza il disprezzo di alcun essere vivente, o ancora vivere con fanatica ferocia le grandi costruzioni religiose, i grandi miti, tramandati dalle antiche civiltà escludendo la ragione, e persino l’esistenza di chi è diverso da noi. Questo ci devono ricordare i nostri morti ai quali abbiamo eretto le tombe. Queste sono le scelte, per ora. Siamo condannati ad avere “fede”, se vogliamo vivere.