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26 Agosto 2013

Roberto Cicutto: il cinema italiano da club per pochi a risorsa nazionale

L'Amministratore Delegato di Istituto Luce Cinecittà ha affidato una sua riflessione, che pubblichiamo sul nostro sito, alla rivista Economia della cultura

Di seguito pubblichiamo il contributo, a firma dell’ad di Istituto Luce Cinecittà Roberto Cicutto, al n. 4/2012 della rivista Economia della cultura, dedicato alle osservazioni e proposte di 25 “Testimoni della cultura”:

Non voglio parlare di misure di sostegno economico per il cinema. Il fatto che il cinema sia in parte finanziato dallo Stato (sempre meno) lo rende antipatico alla maggior parte degli italiani. È visto come una casta di «piagnoni privilegiati» che mettono le mani nelle tasche degli italiani per fare spesso film che non interessano a nessuno o a pochi. Non tutti ovviamente la pensano così. Ma è la sensazione che se ne ricava ogni volta che viene annunciata una misura a sostegno all’industria cinematografica. È successo quando è stata applicata una nuova accisa sulla benzina per finanziare il credito d’imposta che ha in parte colmato la forte riduzione del Fondo Unico dello Spettacolo. È successo quando si è ipotizzato un prelievo minimo sul biglietto delle sale e sui budget televisivi per creare un Fondo Automatico di Sostegno (surrogato del sistema su cui i Francesi hanno costruito la più imponente macchina di finanziamento al cinema esistente al mondo).
È stato criticato anche il recentissimo decreto che stabilisce le quote di finanziamento delle televisioni alla produzione e all’acquisto di film italiani. Un decreto atteso da anni, necessaria declinazione della legge 122 del governo Prodi/Veltroni.
Perfino i più attenti commentatori e fustigatori della mancanza di una politica culturale, se va bene, ignorano il cinema, ma ignorano anche la prosa, il teatro d’Opera, visti, tutti, come buchi neri dilapidatori di soldi pubblici.
Ma più in generale non serve ribadire e dare ricette per sostenere che investire in cultura è una fondamentale misura per favorire la crescita economica di un paese, o che la cultura è stato l’unico settore in crescita in tempi di crisi. O continuare a ripetere che siamo il paese più ricco di risorse artistiche, culturali ed ambientali, se tutto questo non si trasforma in coscienza collettiva e in un movimento di opinione generale al di là della cerchia (sospetta) degli addetti ai lavori. Forse ne abbiamo troppe di ricchezze per occuparci di tutto e con uguale efficacia. Forse non vediamo più quello che invece stupisce e affascina milioni di persone in tutto il mondo.
La cultura sembra un mondo separato dalla società e dai suoi bisogni come dalla politica e dalle sue priorità. La Cultura ha diritto di esistere purchè non rappresenti un problema e non sottragga risorse a cose più importanti (Ospedali, Pensioni, Politica?).

Forse per il Cinema, ma direi anche per la letteratura, si ritiene che la crisi sia irreversibile, che ogni risorsa messa a disposizione sia danaro sprecato (soprattutto se destinato ad azioni di penetrazione nei mercati esteri). Eppure si levano ogni tanto voci che promuovono iniziative autorevoli. Una per tutte il «Manifesto per la Cultura» promosso da Il Sole 24 Ore, benedetto dall’intervento del Presidente Giorgio Napolitano che non «le ha mandate a dire».
Anche in questi giorni di campagna elettorale, intellettuali, giornalisti, registi italiani chiedono che venga «fondato» un Ministero della Cultura (auspicato anche da Monti in uno dei rari momenti in cui ha citato la parola cultura). Si dice sia uno scandalo che mentre esiste in molti paesi, manchi proprio da noi, il Paese della Cultura per Antonomasia. Quello che stupisce, e francamente affatica, è la necessità ogni volta di spiegare il valore, la ricchezza, anche economica, della cultura. Una litania infinita che invece di diventare coscienza nazionale, annoia e crea irritazione.
E inoltre tutto ciò continua ad avvenire all’interno di una cerchia super ristretta, una specie di compagnia di giro che non sfonda i propri confini. Fuori dalla cerchia tutto ciò viene percepito solo ed esclusivamente come una richiesta di sussidi per ceti già privilegiati. Solo i crolli (Pompei, Colosseo, le dolomitiche Cinque Torri…) destano qualche sussulto collettivo, ma rimane pur sempre una indignazione verso l’incuria di chi non preserva «beni tangibili» quali monumenti, siti archeologici o paesaggi. E tutto (giustamente) si chiude con le accuse alla mala politica.
 
Ma non si esce dalla sfera di una indignazione sporadica, non si traduce in una istanza nazionale, in orgoglio e difesa del bene comune (per ampiezza e storia, unico al mondo).
Ma ancor più pericoloso è il considerare gli interventi sempre e solo come conservazione e mai come volàno per nuove iniziative e ricerca. Nel mondo del cinema ci sono ancora posizioni nostalgiche verso un cinema di Stato, che lungi dall’essere garanzia di autonomia almeno creativa, correrebbe seri rischi di dipendenza dalla politica. Forse gli Italiani (e la politica) vorrebbero chiudere l’Italia in una specie di immenso Museo, immobile, buono a vendere qualche biglietto ai turisti ma chiuso a ogni forma di futuro.
Mettiamo in sicurezza tutto, ma guai a pensare di «ridisegnare» un paesaggio architettonico, un sito archeologico, un modo di fare cinema, un nuovo sistema di circolazione degli spettacoli teatrali, un miglior utilizzo del repertorio operistico, e via dicendo. E quando ci si è provato si sono messe in moto forme di opposizione durissima (anche da parte di progressisti e di intellettuali) che invece di entrare nel merito della bontà o meno dell’iniziativa, l’hanno scartata a priori. Insomma la Piramide del Louvre di Ieoh Ming Pei in Italia non esisterà mai. Ma neanche molto molto meno.
Siamo provinciali? Sì. Siamo conservatori? Sì. Mancano i talenti? No. Ma lavorano all’estero. Solo nel cinema l’animazione, nella sua eccellenza, è in mano a moltissimi italiani. Non parliamo dei direttori della fotografia, gli scenografi, i costumisti, i musicisti e non pochi registi. Più difficile per gli attori. Siamo stati leader nel costruire lo star system. Certo siamo penalizzati dalla lingua. Ma se si va all’estero e si parla con i grandi agenti internazionali o i casting directors, la prima cosa che dicono è che nessuno li cerca. Eppure spagnoli e francesi li conoscono bene. Sono più bravi? No. Ma hanno strumenti efficaci di promozione del loro cinema all’estero e gli attori sono essenziali per questa attività.

Serve allora un Monti (prima maniera) della Cultura? Un qualcuno che sappia far diventare emergenza nazionale la difesa e lo sviluppo della Cultura in tutte le sue forme? Se ci fosse perché no. Ma dovrebbe essere capace di una vera e propria rivoluzione culturale nel far percepire la necessità di strumenti di sostegno alla cultura, portando dati oggettivi di ricaduta positiva sulla vita di tutti, e non solo dei pochi coinvolti.
Dovrebbe spezzare la convinzione molto diffusa che molti campano sulla Cultura da parassiti, a tutti i livelli (dal guardiano degli scavi, al regista sovvenzionato per non dire assistito).

Penso che questa «chiamata alle armi» in difesa non solo del patrimonio esistente (in tutti i campi) ma del futuro, attraverso la ricerca e la moltiplicazione delle occasioni per far crescere nuovi talenti, debba necessariamente passare attraverso queste fasi:

educazione nelle scuole alle forme d’arte, alla conoscenza del patrimonio, e istituzione di laboratori che usino la pittura, il cinema, la musica, il teatro come forme per l’apprendimento della nostra storia e come esercizio della creatività (non solo nelle scuole dedicate agli studi classici o artistici e a partire dalle elementari);
obbligatorietà di stage minimamente retribuiti per i diplomati nelle arti visive, restauro, conservazione, musica, architettura, teatro, cinema, letteratura per facilitarne l’inserimento nel mondo del lavoro (sistemi per defiscalizzare i costi sostenuti dalle istituzioni o dalle imprese private che organizzino questi inserimenti non sono la cosa più difficile da realizzare);
– defiscalizzare gli investimenti privati in cultura;
– costituzione di un fondo di sostegno alla cultura attraverso un prelievo dal biglietto di accesso ai musei, concerti, opera, sale teatrali e cinematografiche. Obbligo di finanziamento del fondo da parte delle reti televisive pubbliche e private, internet e telefonia in una percentuale da stabilire sui loro bilanci (e non solo sulle entrate pubblicitarie);
– costruzione e mobilitazione (anche mediatica) di un’istanza cultura che individui nella forma di finanziamento del fondo lo strumento «automatico» per salvaguardare, promuovere e incrementare il patrimonio artistico e creativo nazionale creando al contempo nuovi posti di lavoro. Ci saranno settori che per loro natura finanzieranno in misura maggiore di altri il fondo (il cinema in rapporto al teatro o ai musei per esempio in quanto fruito da più agenti quali la sala, le televisioni, internet, la telefonia…). Ma il vantaggio di concorrere tutti per avere tutti quel che serve senza bisogno di FUS e dipendenza dalla legge di stabilità (vecchia finazniaria) sarà più forte di ogni obiezione.
Ogni settore non si vedrà restituito quanto ha contribuito a versare, ma molto di più e in misura automatica dopo aver fatto le riforme necessarie che diano trasparenza ai modi di produrre, distribuire, promuovere le opere frutto di creatività (film, spettacoli teatrali, opere, concerti di musica sinfonica), o per cui è necessario un grande sforzo di conservazione e allestimento di luoghi di esposizione (musei e siti archeologici, monumenti pubblici…).

Bisogna superare la divisione artificiosa fra attività culturali di interesse generale (musei, archeologia, etc…) e quelle che si configurano come «industria culturale» e che qualcuno vorrebbe lasciare in balia delle sole leggi di mercato.
Il Fondo dovrà essere interamente dedicato al sostegno delle attività, alla formazione e alla sperimentazione, mentre a carico dello Stato devono rimanere i costi della struttura ministeriale, le manutenzioni ordinarie e straordinarie, la costituzione di snelle «agenzie» (con maggiore autonomia gestionale rispetto alle Direzioni Generali come sono concepite oggi, ma sempre soggette alla vigilanza del Ministero) per la gestione della quota del Fondo attribuita alle diverse aree.
Una grande campagna, non una tantum, per costruire un sistema rivoluzionario perché la cultura si «autofinanzi».
L’istituzione del Fondo di Sostegno, unito agli incentivi fiscali, agli investimenti privati, a una forte sinergia con altri ministeri (MAE, MISE, TURISMO e ISTRUZIONE) con competenze per la promozione e le penetrazione nei paesi/mercati stranieri e nella formazione, oltre alle politiche sociali per favorire l’inserimento nel mercato del lavoro, può liberare una quantità di risorse economiche e una capacità di azione oggi impensabile.
In un paese come il nostro dove ognuno, più che invidioso dell’erba del vicino, custodisce segretamente la propria, chiuso a ogni forma di cooperazione e interazione, sarà mai possibile realizzare un piano dove tutti devono superare particolarismi e paura di essere defraudati dai compagni di viaggio? Forse no.
Ma il nostro è anche un paese che ha dimostrato di essere capace di liberare energie straordinarie, di generosità collettiva superiore a ogni previsione, condivisione di obiettivi che sulla carta sembravano irrealizzabili. Penso al passaggio all’EURO, al sostegno superiore a ogni altro paese europeo, all’accettazione del pagamento di una tassa per uno scopo apparentemente lontano dalle proprie esigenze (certo con la promessa fortunatamente mantenuta di restituirla una volta completato l’iter). Dobbiamo costruire e comunicare una visione di prospettiva che unisca i beni culturali e non parcellizzi la loro gestione; che dimostri nei fatti di essere capace di creare posti di lavoro a tutti i livelli; che sappia con semplicità far capire a tutti che si parla di beni comuni e non appannaggio di ristrette cerchie di intellettuali o di privilegiati; che ridia (anzi dia) orgoglio nazionale per tutto quanto ci siamo trovati e forse non meritato.

Ma il cinema italiano come il teatro, l’editoria e forse la musica, ha un altro nemico, più subdolo e tremendamente contagioso: il pregiudizio degli addetti ai lavori, la mancanza di curiosità per il lavoro altrui, l’inerzia.
Se non siamo noi i primi ad essere curiosi del nostro cinema, come faremo a farlo amare dallo spettatore? Spesso andiamo a vedere un film non per scoprirlo ma per confermarci sul giudizio su quell’autore, regista o in generale sul cinema italiano (autoreferenziale, due camere e cucina, prolisso, incapace di innovazione…). Al massimo, come per i crolli di Pompei, abbiamo un sussulto d’orgoglio in occasione delle affermazioni dei nostri autori a Cannes o Berlino, pronti a criticare gli stessi autori o i film se non conquistano una nomination all’Oscar. Se un film ha successo si aspetta il successivo soprattutto per dire che non è forte e riuscito come il precedente. Eppure ci sono autori e registi che affrontano in modo personale e con stile originale temi e generi diversi. Perché non guardiamo all’insieme della proposta per capire se abbiamo una cinematografia viva? Non ci sono ricette per sapere in anticipo se una storia funzionerà. Lo sanno fare bene alcuni produttori che cavalcano un genere nazionale, fortemente fondato su attori comici e magari sulla ripetitività. Anche se le eccezioni non mancano come dimostra, a mio avviso positivamente, la nuova formula del film di Natale targato De Laurentiis che ha saputo mischiare la tradizione (Christian De Sica) con l’innovazione sia nel cast che nella scrittura.
Perché non siamo riusciti (compresi i critici e i giornalisti) a comunicare l’importanza di alcuni film della stagione trascorsa? «Romanzo di una strage» di M.T. Giordana o «Diaz» di Daniele Vicari (nel solco del cinema civile), oppure una commedia originalissima per ambientazione e temi quale il film di Segre «Io sono Li» (una cinese a Chioggia che sentiamo più vicina di tanti personaggi nostrani), per non parlare della capacità profetica non di raccontare qualcosa che in parte poi è avvenuto, ma un sentimento di sconcerto, una forma di «depressione etica e civile» che pervade questo inizio di secolo come racconta «Habemus Papam» di Nanni Moretti. E non si devono dimenticare molte opere prime di straordinario valore, massacrate dall’essere costrette a misurarsi con le leggi del mercato.
Dobbiamo essere noi (produttori, registi, scrittori, attori, responsabili culturali, critici, giornalisti…) i primi a trasmettere curiosità e interesse (e dico anche amore) per il cinema, il teatro, la letteratura, la musica, l’arte contemporanea. Dobbiamo diventare i protagonisti di una class action a favore di, invece che contro qualcosa e creare un effetto contagio di sicura riuscita. Altrimenti lasceremo il campo alle forze più conservatrici, a quelle che negano la necessità di investire in ricerca, per individuare nuovi talenti, per farli crescere ed imporli, credendoci, nel nostro paese e all’estero.
Sull’estero vorrei aggiungere quanto siano sterili le critiche che individuano solo nella mancanza di risorse e nella povertà dell’offerta, la capacità di viaggiare all’estero del nostro cinema. Il cinema non è solo veicolo per i prodotti del Made in Italy, è Made in Italy esso stesso e, se non si mettono assieme idee e risorse per fare blocco e presentarci uniti nel mondo, continueremo a piangere sul latte versato. Dobbiamo superare la paura di mescolarci, dobbiamo realizzare un progetto comune e forte di esportazione della nostra cultura e bellezza


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